Recensione - Postfazione di Giorgio Linguaglossa 'Alle lumache di aprile' R. Pacilio - LietoColle

Postfazione

Se nella prima metà del Novecento la poesia femminile è praticamente assente (eccezion fatta per Ada Negri, Sibilla Aleramo e Antonia Pozzi), è dalla seconda metà del secolo scorso che essa registra una presenza in incessante infoltimento. Pier Vincenzo Mengaldo in Poeti italiani del Novecento prendendo le mosse dalla riflessione sulla poesia di Amelia Rosselli, e riferendosi alla poesia femminile della generazione immediatamente seguente, scriveva che siamo di fronte ad «una scrittura, o piuttosto a una scrittura-parlato, intensamente informale in cui per la prima volta si realizza quella spinta alla riduzione della lingua della poesia a lingua del privato». Questa intuizione si è rivelata azzeccata per quanto riguarda la poesia di Antonia Pozzi, Alda Merini, Cristina Campo e Helle Busacca, ma rischia di diventare imprecisa e addirittura fuorviante se la applichiamo alla poesia femminile delle generazioni successive, che ha ormai metabolizzato e interiorizzato la parificazione esistenziale e sociale con il rispettivo coté maschile. La generazione della poesia femminile degli anni Novanta ha abbandonato la poesia di impegno femminista e la tematica amorosa al femminile; la lingua del privato è diventata la lingua del pubblico, un intero universo del demanio «privato» è diventato «pubblico», le inquietudini del «femminile», sono non dissimili dalle introspezioni e dalle problematiche che si rinvengono presso il coevo coté maschile. Dalla lingua del privato la poesia femminile degli anni Novanta si muoverà in direzione di una poesia del «concreto», e che cosa c’è di più «concreto» di una poesia «erotica»? – La generazione della poesia femminile degli anni Dieci preferisce leggere il «quotidiano» e il «privato» attraverso la lente della destrutturazione del «soggetto». È il trattamento dell’«oggetto» che costituisce il differenziale stilistico e, di conseguenza, la posizione dell’«io» poetico muta il suo punto di vista e il suo luogo. Nel frattempo, la nuova poesia femminile  vede radicalmente mutate le condizioni del fare poesia: si dissolve completamente la poesia di protesta e la problematica femminista della generazione immediatamente precedente, scompaiono lo sperimentalismo e il mistilinguismo, emerge il «quotidiano», la «cronaca», la teatralizzazione dell’«io», il commento dell’«attualità», l’erotizzazione del «privato»; la poesia femminile diventa più «laica» (nella misura in cui desacralizza il «sacro»), tendono a scomparire le rigide partizioni dei «generi» e, all’interno del «genere», tendono a scomparire le differenze di trattamento delle «tematiche». In breve, anche la poesia al femminile diventa post-moderna.
Storicamente, nell’area della «nuova poesia modernista», una menzione particolare va dedicata ad alcune poetesse che hanno avuto il merito di aprire nuovi scenari alla poesia contemporanea, accantonando l’idea di una poesia al femminile o di una poesia di mera protesta della condizione femminile.[1]
Tipico dell’approccio modernista è il suo giungere in ritardo in Italia rispetto al coté europeo: è durante gli anni Ottanta e Novanta del Novecento che la poesia femminile ha, nel nostro paese, uno sviluppo prima impensabile, effetto della intervenuta rivoluzione femminile del «privato» e prodotto dell’assestamento della condizione femminile in chiave neomoderata e conservatrice.
Si verifica così, in una poetessa della nuova generazione come Rita Pacilio, il trattamento erotico della tematica amorosa, dove il deuteragonista maschile è diventato «oggetto» di un «soggetto» attivo e febbricitante. L’equivoco da dissipare è che si leggano queste poesie come una trascrizione dell’esperienza vissuta dell’autrice. Nulla di più erroneo. Il carattere distintivo di questa poesia è, invece, a mio avviso, il trattamento rigorosamente erotico-estetico della materia di vita («hai scavato nel sangue bollente / e svuotato l’anima / fino a dove comincia la terra. / Credevi fossi finita? // Vedi come sono morta!»), senza che nulla del «privato» sia in effetti riconoscibile. Il trattamento stilistico ha questo di vero: che riconduce tutte le sfumature ad un’unica sfumatura, ad una omogeneizzazione stilistica.
La poesia femminile  ha ereditato la crisi di linguaggio della poesia moderna. Se, come scrive Baldacci, la Valduga «non è un poeta in crisi, ma un poeta che parla con la crisi, servendosene». Rita Pacilio ha ereditato la crisi ad un punto che non è più possibile operare con il bisturi del chirurgo, ad un punto che accetta una finzione: accetta la scrittura poetica come se la crisi non si fosse verificata affatto e non fossimo nel bel mezzo di una crisi del linguaggio poetico. Se consideriamo che il dopo Montale ha lasciato un ventaglio aperto di possibilità espressive senza però un linguaggio poetico condiviso, capiremo il perché e il per come dagli anni del riflusso, gli anni Ottanta, fino alla fine del Novecento la poesia erotica sia stata, in sostanza, un oggetto di trastullo e di ghiribizzo, che si è nutrita dei regesti e delle anticaglie dei linguaggi poetici diroccati e fracassati. Oggi, di fatto, c’è una situazione di impossibilità che ha lasciato dietro di sé il discorso di Montale. Oggi non è più possibile dire né meglio né peggio con quelle parole, semplicemente non si può dire nulla di diverso e di nuovo. In questa camera stilistica iperbarica qual è divenuta la poesia contemporanea, dove i piccoli ritocchi si fanno come in frigidaire, sono ammessi ancora dei giochi, ma il più importante, il gioco erotico è al di fuori della poesia, nel mondo del «reale»; il ruolo della poesia moderna non è più «quello di chi si diverte a ritagliare il linguaggio degli altri, a lavorare di forbicine e colla» (come scrive Baldacci riferendosi alla poesia della Valduga) ma quello, direi, di ricostituire il nuovo traliccio del linguaggio poetico e il suo rapporto con il «reale». E non è un compito da poco.

Giorgio Linguaglossa






[1] Patrizia Valduga con Medicamenta (1982), Medicamenta e altri medicamenta (1989), Cento quartine e altre storie d'amore (1997); Giovanna Sicari con Decisioni (1986), Sigillo (1988), Uno stadio del respiro (1995) e Epoca immobile (2003); Maria Rosaria Madonna con l’unico libro pubblicato: Stige (1992), morta nel 2002; Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996), libro uscito postumo; Maria Marchesi, di cui ricordiamo i due volumi pubblicati: L’occhio dell’ala (2003) e Evitare il contatto con la luce (2005). Seguono poetesse di varia provenienza culturale che hanno un approccio disparato alla poesia: Chiara Moimas con L’angelo della morte e altre poesie (2005); Lidia Are Caverni con Un giorno e poi (1985), Nautilus (1990), Il passo della dea (1999), L’anno del lupo (2006); Laura Canciani di cui ricordiamo L’aquila svolata (1983), Da questi occhi (1986), Il dono e la meraviglia (1989), Lo stesso angelo (1998), Il contagio dell’acqua (2009); Maria Rita Bozzetti con Monade arroccata (2008); Rosita Copioli con Splendida lumina solis del 1979 e Furore delle rose del 1989. Con la terza raccolta, Elena, del 1996, il periodo di punta del movimento «mitomodernista» è già nella sua fase di naturale riflusso; con l’ultimo libro: Il postino fedele (2008) siamo già in una temperie modernista; e poi Maria Consolo di cui ricordiamo: Da sola a solo (1998),  Coi macigni e l’erbe (2000), Dissonanze (2003), In queste stanze (2006); Anna Ventura con Nostra dea (2001) e Cinquanta poesie (2003); Maria Benedetta Cerro di cui ricordiamo il libro Allegorie d’inverno (2003); Isabella Vincentini con Diario di bordo (1998) e Le ore e i giorni (2008), Daniela Marcheschi con Sul molo foraneo (1991), Lidia Gargiulo con Penelope classica e jazz (1994) e i segni di proserpina (2006); Gabriella Sica con Poesie familiari (2001) e Le lacrime delle cose (2009); Manuela Bellodi con La prossima volta  (2008). Delle nuove generazioni segnaliamo  Elena Ribet con Diario dei quattro nomi (2005) e Serena Maffìa con Il ragazzo di vetro (2005).


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