Recensione - Daniele Santoro per 'Non camminare scalzo' - di Rita Pacilio Edilet Edilazio Letteraria 2011






Rita Pacilio, Non camminare scalzo, Edilet, Roma, 2011


Ha la struttura del prosimetro questo libro tragico, sofferto – eppure animato da un’istanza di salvazione dal dolore – di Rita Pacilio dal suggestivo titolo Non camminare scalzo (Edilet, Roma, 2011). Un diario lirico che guida il lettore all’incontro con la sofferenza; un diario il cui «sguardo è centralizzato sullo spazio interno del proprio vissuto» – come l’autrice stessa avvisa in un’apposita quanto necessaria “introduzione” dai risvolti tematici, finanche sociologici (non è, peraltro, fuori luogo ricordare che l’autrice si occupa di Mediazione familiare e dei conflitti interpersonali, oltre che di Prevenzione delle dipendenze). Che il genere letterario attinga – si diceva – a un misto di prosa e poesia ha tuttavia una sua intrinseca ratio; l’ansia di dire, di raccontare «la sofferenza propria e dell’altro» (Introd., p. 7) non può che trovare in tale genere la sua cifra più autentica, dal momento che incontenibile è la voce della Pacilio e impossibile è ingabbiare quel cupo dolore nella purezza anodina del verso, circoscriverne gli effetti entro lo spazio angusto della versificazione; di qui, allora, sovente lo “strabordare” della pronuncia in una prosa che – beninteso – non è meno lirica o priva di squarci poetici, ma che risulta funzionale a esprimere la complessità, e dunque la latitudine di quella sofferenza assurta a malefica protagonista del mondo (interiore o collettivo che sia). Un libro coraggioso, dunque, e che ha l’indiscusso pregio di indurci a riflettere sul significato del dolore. Un dolore che coinvolge sia la fisicità del corpo, sia la sfera della psiche, in una tensione che avvince costantemente il lettore, visitatore di questi bui meandri in cui regna l’abuso, la violenza più becera e bieca e da cui pure si staglia, prepotente, il grido doloricida di una donna offesa, dalla dignità ferita, ma non prona, «in attesa che una gioia, non ancora conosciuta – scrive Utzeri nella prefazione – prenda l’iniziativa per venire ad aprirci» alla vita, a cacciarci dal serraglio del male che ha imprigionato la forza d’amore, l’anelito alla libertà.
Rispondente alle esigenze tematiche è lo stile dell’opera; uno stile improntato prevalentemente alla paratassi con coordinazione per asindeto che traduce il flusso psichico dell’io narrante; di qui la concitazione, la rapidità del dettato che suona come richiesta, invito, esortazione dell’autrice ad essere «riportata a casa» (p. 83), ad essere «lasciata camminare scalza» fino a «sentire il freddo della terra, prima che mi inghiotta», fino ad «ansimare sul pavimento, arrotolarmi su me stessa nei passi lenti» (p. 84). Di qui, di conseguenza, alcuni interessanti espedienti retorici, quali anafore, spesso triplici («ho fame», «dammi») che traducono il ritmo martellante e hanno il timbro di un’invocazione che possa salvificare. Altrove sono l’iterazione ravvicinata e l’espressionismo delle immagini a fare da protagonisti del narrato; è il caso di questo stralcio di p. 58: «[…] Una luce arriva / da dentro e si irradia: una forza», cui segue l’inserto «che esplode come un lampo d’agosto nel mare» il quale, per la sua collocazione, non sappiamo se pertinente alla chiusa del testo poetico di cui sopra o della prosa a seguire. Una tensione marca sovente il dettato, per mezzo di immagini forti, carnali, rese con lemmi pregni di fonemi aspri, percussivi: «Rabbiosa come una gatta che graffia» (p. 66), «Si lacera la carne, si sbrindella» (p. 74). Ma il libro non si risolve in mero cupio dissolvi, né vuole essere ‘racconto’ svolto unicamente per viam negationis; aleggia per ogni dove l’afflato della vita, l’esplosione dei sessi, la «danza / tribale che fa vibrare le pareti» (p. 67), le «fibrillazioni di notti d’amore» (p. 66), quella richiesta di gioia – di cui si diceva – che possa fare sentire l’io della Pacilio, nonostante le tenebre e la «pioggia sui vetri dei miei occhi» (p. 73), «un ciliegio sempre generoso, a braccia larghe» (p. 71), «con i capelli mossi e la pelle liscia di rose» (p. 74).                                                                        
    Daniele Santoro

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