Recensione - Flavia Balsamo legge 'Gli imperfetti sono gente bizzarra' (LVF, 2012) e 'Quel grido raggrumato (LVF, 2014) di Rita Pacilio per Diario Partenopeo






Quel grido raggrumato
A chi rinasce nonostante tutto. Questa la dedica di una raccolta di poesie “carnivora”, nel senso che inghiotte la carne, si ciba dei patimenti del corpo dell’uomo, un corpo che è vita, che è coscienza, e li riversa su carta rimescolandoli, amalgamandoli con parole che sono falci, che sono ossa che scricchiolano tra loro per dire il freddo della carne nuda, per raccontare quelle “mani di padrone che sono daghe” e una donna “tenuta in due come un foglio”.
La poesia di Rita è racconto di delitto, di un’usurpazione compiuta ai danni della diversità, di quella “colpa che non si fermerà nella frusta dei reni” ma troverà una strada, raccogliendo le voci e trascinandole, facendosi veicolo e involucro anche di quelle “puttane con la carne svuotata e impagliata”, di chi non ha voce insomma, di chi la voce l’ha estinta in rassegnata compostezza. Il corpo vuoto è caverna che fa eco a un’immobilità che culla un dolore diverso, una sofferenza che non si dimena, che non chiede aiuto. Una rigidità che si ritrova anche in quei colpi che sono “rocce che reggono l’ignoranza”, una roccaforte che tiene lì le vittime, tutte ferme,  trofei di caccia, “come se fossero nuovi Gesù in fila, feriti e lapidati, segnati nei lombi rachitici”, o “bambole imbronciate tutte sedute nel baule della nonna” a piangere “il silenzio nella bocca della carne”. E lei che “credeva di saper morire in modo impassibile”. L’empatia, che è farsi eco, come può riflettere quella fermezza e quel silenzio di voci se non in un grido raggrumato? Un grido che non dilaga ma resta lì, poesia calcificata.


Gli imperfetti sono gente bizzarra
Parafrasando Lyotard, si può dire che l’entusiasmo è espressione di uno scacco che non trova voce di lingua quotidiana e si cerca cantucci alternativi. Questa raccolta di poesie di Rita Pacilio è entusiasmo, nel senso che scuce tutte le parole dell’ordinario comunicarsi (“lo so tu sai scucire la terra”) e le riadatta al bizzarro essere altro che altrimenti non avrebbe parola e si perderebbe. Questa poesia è sorella, accorta custode di quelle “costole che non erano previste”, del fratello e di tutti “i folli che hanno labbra di rosa vermiglio” e “ginocchia conficcate nella gola”, a interdire il linguaggio.
Rita si fa sguardo malleabile, pronta a immaginare tutto, a stordire il pensiero per trovare dimensioni alternative, perché in fondo i poeti sono quelli che rifiutano il linguaggio, come diceva Sartre, ma non lo fanno per puro delitto, olocausto di parole, ma per tenere la vita sospesa, come neve, come raggio o lanterna, dice Rita, per dire tutto ciò che non si può dire, quello che esce fuori da ogni schema, paradigma, o categoria, quella “composta di cose che ha intristito la vita dei giusti”, che li fa arrendere perché non vi trovano alcun ordine di causa effetto, nessun sistema.
Ed ecco perché gli “imperfetti” sono lì “nel posto più lontano della solitudine”, “lasciati nell’arena come un silenzio, un ghigno”, senza nessuno che li sappia ascoltare, capire. “La prigione di mio fratello ha le finestre sorde” scrive Rita raggiungendo una vetta incredibile che in un colpo solo riesce a figurare gli uomini come monadi leibniziane, con le finestre spalancate sull’altro, mentre alcuni le finestre le hanno ma sorde, mutilate del dizionario per decifrare le sfumature, le insicurezze: “Ho pensato che Dio ama l’insicurezza e le sfumature dei dirupi”.
Questa è una raccolta che dolcissima raccoglie l’invito di queste anime che “portano le ali sotto la maglietta”, che “hanno la testa nei sotterranei”, “un amore negli occhi, un presentimento di attesa”, di pugni che smarriscono le mani, e occhi che rendono urgente il guardarli, cerca di afferrare tutto, ogni frammento impazzito di mondo, e andare con loro “nel rumore di valzer zoppo a braccetto”. Solo la poesia può raccogliere questo mondo al contrario, in cui si incontrano le parole come cose, “mi accade di cercare la bocca per affidarmi a quel vuoto il tocco della lingua dalle cose”, e non le cose per poi arrivare alle parole.  È un dire che non rimanda a, non significa: “nessuno conosce la voce scalza e non importa cosa voglia dire”. Solo il “terzo occhio della poesia” può cogliere quella scenografia che è dentro la testa degli imperfetti, e vedere il “falco pallido sul collo” mentre gli altri, “gli spettatori chiudono le porte”.
Tra singhiozzi ti aprirò il nome come fa una rosa. 

http://www.diariopartenopeo.it/la-poesia-di-rita-pacilio-il-grido-raggrumato-che-da-voce-allaltro/ 

http://poesia.lavitafelice.it/news-recensioni-flavia-balsamo-per-rita-pacilio-2604.html


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